The Tank Man, Anonimo, 1989


Iniziava il 15 aprile 1989 la protesta di piazza Tienanmen, a Pechino, che si sarebbe conclusa una cinquantina di giorni più tardi, il 4 giugno, con un energico intervento militare… Una repressione di cui l’immagine più famosa è senz’altro quella dell’esile studente, con due buste della spesa in mano, che cerca di bloccare l’avanzata dei carri armati, si arrampica sul primo della lunga fila di essi, cerca di convincere senza successo il carrista a desistere.
Il succedersi degli eventi fu il seguente. Il 15 aprile muore l’ex segretario generale del PCC, il riformista Hu Yaobang, stretto collaboratore di Deng Xiaoping, con il quale aveva partecipato alle riforme economiche e alla denuncia della Rivoluzione culturale, ma che era stato licenziato nel 1987 “per gravi errori politici”, in seguito alle dimostrazioni studentesche che in quell’anno e nel precedente avevano scosso il Paese: è in suo onore, per chiederne una chiara riabilitazione politica, che a due anni di distanza gli studenti scendono in strada di nuovo, nonostante siano già previsti funerali di Stato in onore di “un grande rivoluzionario proletario”. Tali manifestazioni spontanee si verificano anche in altre province del Paese e nei giorni successivi le richieste si radicalizzano e il numero dei manifestanti cresce rapidamente. La necessità di riforme in senso democratico, i problemi di corruzione e di nepotismo, le richieste di aumento salariale interessano una parte ampia della popolazione e non lasciano insensibili neppure alcuni elementi del governo e del partito, tra i quali il segretario Zhao Ziyang, succeduto a Hu, anch’egli di orientamento riformista, già perseguitato durante la rivoluzione culturale e poi favorito nella sua ascesa politica dallo stesso Deng. Nei primi di maggio la protesta si estende ai lavoratori e agli studenti delle scuole e coinvolge un numero crescente di province, raggiungendo Hong Kong e Taiwan e trovando sostegno nelle comunità cinesi all’estero. Ma i protestanti trovano una ferma opposizione in un’ampia parte del partito, del governo e dell’esercito: soprattutto nel primo ministro Li Peng, nel presidente della Repubblica Yang Shangkun e in Deng, che teme le riforme politiche possano ostacolare quel processo di apertura del mercato – sul “socialismo con caratteristiche cinesi”, secondo la sua formula – che stava avviando il Paese alla grande trasformazione economica. Il movimento è particolarmente attivo nelle università, dove si organizzano scioperi e associazioni indipendenti dal PCC, ma non ha un carattere unitario e un’organizzazione forte o una leadership, e ciò complica peraltro i negoziati; non si definisce ovviamente antisocialista e antirivoluzionario, e anzi i manifestanti intonano nelle piazze l’Internazionale, ma la richiesta di democrazia è più che palese. Per reazione alle scarse risposte ottenute dal governo, il 13 maggio gli studenti dichiarano lo sciopero della fame a oltranza, dando inizio alla fase più drammatica della protesta. La visita di Gorbačëv il 16 e 17 maggio, nonostante i tentativi governativi di censurare quanto sta avvenendo, offre peraltro al movimento una maggiore visibilità internazionale. Il 19 maggio una soluzione pacifica sembra ancora prospettabile dopo un tentativo di mediazione da parte di Zhao, che chiede accoratamente agli studenti di interrompere lo sciopero promettendo di tenere aperte le porte del dialogo. Quello stesso giorno, tuttavia, la sua posizione, sostenuta anche da elementi dell’esercito, del governo e del partito, passa in minoranza e viene proclamata la legge marziale. Zhao viene destituito e condannato agli arresti domiciliari, Pechino viene circondata dall’esercito e la situazione precipita in giornate di aperta guerriglia fino alla sconfitta definitiva del movimento il 4 giugno. Molto divergenti sono le opinioni riguardo ai numeri delle vittime di quei giorni e del periodo successivo di epurazione: si va da una stima di 400 fino a cifre molto superiori di 2500 morti e oltre. Il governo cinese, tuttavia, ha sempre negato che ci sia stata una carneficina, e un articolo dei The Daily Telegraph del 2011, basato sui dispacci delle ambasciate occidentali ottenuti attraverso WikiLeaks, sembrerebbe avallare la tesi governativa. In ogni caso, senz’altro la memoria “pubblica” di quegli eventi è stata rimossa e osteggiata in Cina, ma non in Occidente. Le proteste di piazza Tiananmen furono il frutto, negli anni ottanta, di una ricerca d’identità politica nella Cina uscita dalla Rivoluzione Culturale degli anni sessanta. All’epoca l’opinione pubblica e l’élite politica volevano introdurre un sistema di equilibrio dei poteri, in modo da evitare il ripetersi dei problemi che in più di 10 anni avevano mandato il paese in rovina. Anche se la prospettiva di una democrazia multipartitica in stile occidentale non era mai stata presa in considerazione, esisteva un dibattito, all’interno del partito e dell’intellighenzia, su una migliore supervisione dell’organizzazione di governo e su un certo livello di separazione tra le sue funzioni politiche e quelle esecutive. “Dovrebbe esserci un sistema di supervisione del potere del Partito comunista. Il potere non può essere monopolizzato”, ha scritto nelle sue memorie l’ex segretario generale del partito Zhao Ziyang. Allo stesso tempo erano state avviate delle trasformazioni economiche che avevano fatto affluire investimenti stranieri e avevano permesso la nascita di imprese private. Il paese aveva raggiunto un certo grado di ricchezza ma erano aumentate anche disuguaglianze e corruzione poiché, all’inizio, solo a pochi era stato permesso di cominciare ad arricchirsi. Le preoccupazioni sulla corruzione e il dibattito sul sistema politico confluirono, nella primavera del 1989, nelle proteste di piazza Tiananmen guidate dagli studenti. Per circa due mesi i manifestanti chiesero apertamente profondi cambiamenti, sfidando il partito e secondo alcuni dei principali esponenti dell’organizzazione minacciando il governo comunista. Il leader Deng Xiaoping e i membri anziani più conservatori del partito temevano che le manifestazioni si diffondessero in altre città e fossero usate da forze straniere per rovesciare il regime comunista. All’indomani della repressione del 4 giugno, i riformisti furono espulsi dal partito e la stabilità politica diventò la priorità. L’adozione di un sistema di pesi e contrappesi lasciò il posto alla paura di sommosse. Da allora il partito ha mantenuto il suo potere autoritario e tenuto a debita distanza qualsiasi riforma politica. “Il mantenimento della stabilità è un prodotto del 4 giugno. Dopo il 4 giugno è diventato necessario mantenere la stabilità con la forza”, spiega Bao Pu, figlio di Bao Tong, un consigliere di Zhao. Così facendo, il partito ha sperato di far esaurire le richieste di giustizia per i manifestanti di Tiananmen, una strategia concepita per minimizzare i rischi, dicono gli analisti.

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